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Non solo di proprietà | Sarah Gainsforth

Intervista a Sarah Gainsforth, giornalista e autrice

La risposta alla domanda di casa non è costruire nuove case. Di abitazioni in Italia ce ne sono già troppe e rimangono vuote (quasi il 30% del totale), i costi di acquisto e di affitto mettono in crisi ormai anche il ceto medio. Il mercato immobiliare italiano ha un problema e l’edilizia residenziale pubblica è scomparsa tra cattiva gestione e precise scelte politiche. Così la pensa la giornalista Sarah Gainsforth, che da anni segue questo tema. L’abbiamo intervistata.

Nel suo libro “Abitare stanca. La casa, un racconto politico” ricostruisce le vicende delle politiche abitative del nostro Paese nell’ultimo secolo. Cosa è successo?

Il diritto all’abitare in Italia non è mai stato riconosciuto. Nella Costituzione, infatti, è sancito il diritto al risparmio per l’acquisto, orientando con questo approccio tutte le politiche per la casa in Italia del dopoguerra. L’edilizia residenziale pubblica ha avuto una stagione di grande diffusione, negli anni ‘50 e ‘60, ma non è mai stata determinante, perché da sempre considerata come residuale rispetto alla proprietà e alla rendita, che sono state invece incentivate. Dagli anni ’90, inoltre, abbiamo anche iniziato a considerare la casa al pari di una merce – “a uso investimento” è un’espressione molto in voga – e l’edilizia residenziale pubblica è progressivamente scomparsa dell’agenda della politica.

Quali sono le politiche pubbliche sulla casa?

In Italia, anche se in maniera attenuata rispetto a paesi come Gran Bretagna e Stati uniti, si è assistito a un progressivo slittamento di fondi dal pubblico al mercato privato. Negli ultimi anni, perfino le uniche due misure di sussidi esistenti, pensate per tamponare situazioni di disagio abitativo – i contributi all’affitto e i fondi morosità – non riescono a essere erogate per lentezze burocratiche. Inoltre, oggi, nonostante il disagio abitativo ormai riguardi anche i lavoratori di ceto medio, quindi cresce la richiesta di sussidi, questi fondi sono stati perfino definanziati!

“Dobbiamo tornare a pensare all’affitto come un’alternativa alla proprietà e non come una soluzione di ultima istanza riservata alla fascia più povera della popolazione. Dobbiamo smontare una visione centrata sulla proprietà e sulla rendita”

Qual è il modello di abitare oggi in Italia?

Dovremmo partire dai dati. Oggi il 71% delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà, ma solo il 13% sta ancora pagando un mutuo. Questo significa che la stragrande maggioranza delle famiglie proprietarie lo è diventata negli anni passati. A questo scenario dobbiamo aggiungere il 20% di famiglie che abitano in affitto e quasi il 9% che sono in usufrutto. Questi dati ci dicono, dunque, che il mercato immobiliare italiano non è affatto dinamico, soprattutto rispetto ad alti paesi Ue, dove la quota di famiglie che stanno pagando un mutuo sfiora mediamente il 40%. Poi c’è il tema del cosiddetto “spreco edilizio”.

Di cosa si tratta?

Si continua a dire che la soluzione al problema della domanda di casa sia costruire più case, ma è evidente che questa risposta sia insostenibile, soprattutto in un Paese come l’Italia che è in declino demografico. Esistono grandi differenze territoriali ma, in generale, il problema non è l’assenza di case bensì l’eccesso di case vuote, che non si riescono a vendere e, ultimamente, neanche ad affittare. Perché sono cambiate le condizioni di accesso alla proprietà; soprattutto dopo la pandemia: l’accesso al credito è diventato più complicato, i prezzi sono aumentati e, parallelamente, nel mercato del lavoro cresce la frammentazione delle carriere e la precarietà, allargando così il divario tra i costi e redditi. Dovremmo ragionare su come rendere gli alloggi realmente accessibili, rimettendo in moto anche il mercato.

“In Italia abbiamo vissuto una stagione di urbanismo diffuso, in cui gruppi di cittadini reclamavano il diritto di dire la loro su come andavano “disegnate” le città. Quella stagione, purtroppo, è finita e spesso, oggi, l’urbanistica è ridotta a una mera forma di contrattazione tra il pubblico e i privati”

Come fare?

Dobbiamo tornare a pensare all’affitto come un’alternativa alla proprietà e non come una soluzione di ultima istanza riservata alla fascia più povera della popolazione. L’aspetto principale che distingue le politiche abitative dei paesi europei dallo scenario italiano è la varietà. Bisognerebbe immaginare un sistema composto da: edilizia residenziale pubblica, housing sociale a canoni veramente calmierati e misure per favorire l’affitto. Dobbiamo smontare una visione centrata sulla proprietà e sulla rendita.

Abitare non vuol dire solo “casa”, ma anche città dove vivere. Su questo tema ha scritto pagine appassionate sul “ruolo sociale” dell’urbanista. Di cosa si tratta?

La missione dell’urbanista è migliorare la qualità della vita degli abitanti delle città. C’è stato un tempo in cui la professione dell’urbanista era tenuta in grande considerazione. In Italia abbiamo vissuto anche una stagione di “urbanismo diffuso”, in cui gruppi di cittadini reclamavano il diritto di dire la loro su come andavano “disegnate” le città: penso, negli anni ‘70, all’Unione delle Donne o ai comitati di quartiere. L’urbanistica non era solo considerata una questione tecnica, ma una visione sul modo in cui rendere la città uno spazio accessibile a tutti, puntando sulla qualità dell’abitare e degli spazi pubblici. Quella stagione, purtroppo, è finita e spesso, oggi, l’urbanistica è ridotta a una mera forma di contrattazione tra il pubblico e i privati.

Recentemente ha intitolato un suo articolo “Chi usa le città non sempre paga per farle funzionare”. Come si collega il tema della “turistificazione” delle città con la questione della casa?

I due fenomeni sono strettamente legati perché, in molti casi, i processi di rigenerazione urbana possono innescare una pericolosa spirale di “gentrificazione”: aumenta il valore di mercato delle case, quindi gli affitti salgono, diventando insostenibili per molti degli abitanti, che sono costretti a lasciarle e le case rimaste vuote finiscono sulle piattaforme di affitti brevi. Ovvero, quegli interventi di rigenerazione pensati per migliorare la vita degli abitanti, finiscono per espellere gli abitanti dai loro quartieri. Il beneficio dell’aumento dei valori immobiliari c’è solo per chi compra e vende case a uso investimento e non per chi ci abita. Dunque, il cuore della questione è riuscire a rimettere in discussione il modello di crescita della città, che è tutto basato sulla rendita. Per questo è centrale il tema degli strumenti di controllo sull’aumento degli affitti, che in altri paesi esiste.

“I processi di rigenerazione urbana possono innescare una pericolosa “gentrificazione”: aumenta il valore di mercato delle case, gli affitti salgono, diventando insostenibili per molti degli abitanti, che sono costretti a lasciarle e le case rimaste vuote finiscono sulle piattaforme di affitti brevi” 

Allora meglio non rigenerare?

No. Occorre migliorare i quartieri, dotandoli delle infrastrutture e dei parchi, controllando però l’effetto sulle case. Per esempio, prevedendo in questi quartieri anche uno stock di case di edilizia pubblica o di social housing per mantenere variegata l’offerta di casa, continuando a monitorare il livello degli affitti. Ma c’è anche un altro grande rischio.

Quale?

Se lasciamo fare tutto al mercato, a lungo andare, finiamo per danneggiare le città, perché tutta la crescita economica viene assorbita dalla rendita. È stato infatti studiato come, con questa ipertrofia del mercato immobiliare, le città non riescano più ad attirare e a far insediare la popolazione più giovane e dinamica. Per potenziare l’economia, abbiamo bisogno dello sviluppo di settori a più alto valore aggiunto, mentre le nostre economie urbane sono sempre più dipendenti da settori a basso valore aggiunto (alloggio e ristorazione), quindi nelle città aumenta il lavoro povero e cresce il divario tra i costi abitativi e i redditi da lavoro.

Come immagina il futuro delle città italiane?

Gran parte dei piani regolatori delle città italiane sono frutto di un’altra epoca, in una fase di espansione delle città e della popolazione. Oggi viviamo invece in un’epoca di cambiamento climatico e di inverno demografico che necessita di cambiare modello e di rivedere radicalmente quei piani. Non vedo tuttavia una consapevolezza diffusa di questa necessità. Ci sono tanti piccoli interventi “spot” di rigenerazione, ma mai una revisione organica. Si possono anche rigenerare tutte le piazze della città, ma se non regoliamo la rendita non stiamo costruendo città per gli abitanti di oggi e di domani.

Dalla rivista Fondazioni gennaio – febbraio 2024